Oggetto di studi approfonditi ormai da qualche decennio da parte di istituzioni economiche e società di consulenza internazionali, la parità di genere è oggi molto più di un’aspirazione egualitaria riconducibile in particolar modo ad un movimento culturale, filosofico o politico.
Nel 2015 i 193 paesi membri delle Nazioni Unite dichiararono di volersi impegnare nel conseguimento di 17 obiettivi di sviluppo sostenibile a beneficio delle economie di tutto il mondo. L’obiettivo numero 5 si concentrava sull’uguaglianza di genere e fissava l’obiettivo di raggiungere l’uguaglianza di genere e conferire gli stessi diritti degli uomini a donne e ragazze ovunque entro il 2030.
Di fatto, con la dichiarazione delle Nazioni Unite del 2015 la parità di genere aveva assunto il ruolo di un obiettivo strumentale al conseguimento di un maggiore livello di benessere nel mondo.
In effetti, nello stesso anno della dichiarazione delle Nazioni Unite, un rapporto del McKinsey Global Institute (MGI) aveva mostrato come l’annullamento del “gender gap” nel pianeta avrebbe potuto portare ad un innalzamento – shock del PIL mondiale di oltre 12mila miliardi di dollari.
Cinque anni dopo lo studio e dopo la dichiarazione, i divari di genere in tutto il mondo rimangono molto ampi e le prime analisi suggeriscono che la pandemia di COVID-19 abbia avuto un effetto ulteriormente regressivo sulla parità di genere.
La rappresentazione del “gender gap” come una riserva di ricchezza per il pianeta può forse essere vista come un modo cinico di guardare ad un problema che fa soffrire milioni di esseri umani nel mondo. Allo stesso tempo restituisce il senso della dimensione del problema, che spesso viene sottovalutato da tutti noi.
Ne abbiamo parlato con Elena Campriani, Chief Financial Officer di SoftJam.